1943  

Memorie di Angelo Domenico Libutti

 

 

Bombe e rifugi a Rionero

Dopo lo sbarco degli angloamericani in Sicilia, avvenuto il 9 luglio '43, a Rionero si avvertiva una certa tensione. Alcuni già dicevano apertamente che ormai si era alla frutta e che, pertanto, non c’era più alcuna speranza di un esito positivo del conflitto. Bisognava pensare al dopo, perché tutti erano convinti che la guerra sarebbe finita prestissimo. A via Mazzini c’era una sola casa dotata di radio: quella di Vincenzo Crovace, impiegato del dazio, la cui moglie gestiva un negozio di generi alimentari nella sua abitazione attaccata alla nostra. In segreto, le persone più acculturate del quartiere, nottetempo, ascoltavano Radio Londra e si erano convinte che presto ci saremmo liberati dal fascismo, tornando ad essere un popolo libero.

 

   

    

Il fascismo cadde il 25 luglio, l’8 settembre fu annunziata la resa dell’Italia agli alleati. La sera dell’8 settembre, mentre eravamo in preda all’euforia per l’annuncio dell’armistizio, nel cielo di Rionero si verificava uno scontro tra gli aerei da caccia di scorta ai bombardieri alleati e quelli tedeschi, che cercavano di disturbare le squadriglie di fortezze volanti.Dal rumore degli scoppi delle bombe, che rintronò fino a noi poco più tardi, capimmo che era stata bombardata Potenza [1].  Nello spazio di due giorni, molte famiglie di rioneresi cercarono e trovarono rifugio fuori dell’abitato in grotte, case coloniche e masserie. 

    A Rionero i rifugi più sicuri erano situati in periferia, nelle cave di pozzolana ricche di grotte ampie e asciutte, tra le quali si distinguevano quelle di Rione Sant’Antonio, quelle di Biagio e Rocco Curto, e quelle di Pietro Sacco presso le casette asismiche. In paese, invece, erano usate come rifugi le cantine scavate sotto grandi e solide abitazioni lungo tutte le strade cittadine.  Ne esisteva uno in Villa Giannattasio.  I rifugi sparsi nelle campagne e nelle masserie erano distanti dal paese, ma più sicuri. I più noti, perché ospitavano più famiglie, erano quelli di don Vito D’Angelo in contrada Querce, dei Traficante al Piano dell’Altare, dei Valenza e dei Tirriciello al Cilentino; altri erano nelle masserie dei Di Leo, dei Consiglio, dei Nigro, dei Traficante, dei Policastro.

 

La contrada più ricca di presenze umane era quella denominata Solagna della Noce. Qui si trovavano ben cinque rifugi, dei quali due adiacenti di proprietà delle famiglie di Giulio D’Angelo e di Antonio Brescia; a trecento metri altri due appartenevano ai cugini Marco e Luigi Cappiello, a pochi metri di distanza l’uno dall’altro. Nel mezzo era situato quello di mio nonno Angelo Domenico Libutti, che registrava il più alto numero di presenze. I due rifugi adiacenti dei D’Angelo e dei Brescia e quelli di mio nonno erano tutti scavati nel tufo asciutto e debitamente intonacati. Quelli dei cugini Cappiello erano autentiche case coloniche, delle quali la più grande apparteneva a zi’Luigi. A queste si accedeva dalla scorciatoia della statale 8, all’altezza della neviera di Crocco. Tutti e cinque erano collegati da stradine di campagna.  

     

L’abitamento che si trovava nel fondo di mio nonno aveva un vasto piazzale antistante. Su questo spiazzo libero, in soli due giorni di tempo, erano state innalzate due baracche con tetti di tavole e lamiere, offerte dal costruttore Antonio Preziuso e trasportate in campagna dai nostri due quadrupedi e dal cavallo del maresciallo della Forestale dottor Aurucci. C’era già, inoltre, un pagliaio di buona fattura contadina, che il nonno volle riservato per sé, sua moglie e me. Nel grottone centrale si sistemarono il resto della nostra famiglia e i Di Lorenzo, nipoti diretti del nonno, perché figli della sorella Clementina. Nelle due stanze adiacenti al grottone centrale alloggiarono, rispettivamente, gli Aurucci e i compari Libutti. Nelle due baracche presero posto i Granito e i Preziuso.   

   Eravamo in 37 tra grandi e piccoli: tredici della mia famiglia, sette dei Di Lorenzo, sette dei Granito, tre dei Preziuso, tre degli Aurucci, quattro dei compari Libutti. Non compresi tra questi erano i capofamiglia, che la sera tornavano in città a sorvegliare le abitazioni, per preservarle da eventuali sciacallaggi e trovarsi puntuali per gli impegni di lavoro del giorno seguente. 

    Così sistemati, rimanemmo per una settimana tutti insieme. Già al secondo giorno, però, si cominciò ad avvertire la mancanza delle comodità della casa: soprattutto le donne, per ovvie ragioni. Così, dopo una settimana, rimanemmo nel rifugio solo noi ed i parenti Di Lorenzo, fino alla fine di settembre. Fortunatamente questo mese era stato senza piogge, di una temperatura ancora dolce, e in campagna si avvertiva poco la mancanza del confort domestico. Delle altre famiglie, solo il maresciallo Aurucci, quasi ogni pomeriggio, veniva a farci visita per ragguagliarci sulla situazione.  

 

 

Comitato clandestino

Il pergolato sullo spiazzo antistante all’abitamento era stato tagliato per far posto alle due baracche, ma quello che copriva lo spazio della rotonda, sotto l’ombrello ombrifero del pino, era rimasto intatto. Qui, stesi su una ràcana, telone per usi agricoli, a giorni alterni si riunivano gli anziani dei cinque rifugi per fare quattro chiacchiere o giocare a carte. Erano Giulio D’Angelo, Antonio Brescia, Marco Cappiello e mio nonno. Nel medesimo luogo, però, all’occorrenza avveniva un’altra riunione, diversa e più importante. Vi partecipavano i maggiorenni maschi dei rifugi, tra cui si evidenziavano Cecchino e Aurelio D’Angelo, il maresciallo Aurucci e mio padre. Era vietato alle donne di qualsiasi età e agli anziani prendervi parte. Questo divieto valeva anche per mio nonno che era del posto. Perciò, anche se poi veniva messo al corrente di tutto, brontolava continuamente e diceva: “Ma guard' nu poc' sti quatt’ miccusi! Ij so’ vecchij, ma nun so’ ‘nzalanut! Ma guarda un po’ questi quattro mocciosi! Io sono vecchio, ma non sono uno scemo!”In tali occasioni, sulla ràcana comparivano armi da fuoco recuperate in vario modo, che poi venivano occultate. Non si poteva mai sapere…      Mi ricordo, altresì, che quando si discuteva in quelle riunioni, anche se ero ad una certa distanza, io notavo che il maresciallo Aurucci ed i fratelli D’Angelo erano i più intraprendenti, ma il vero animatore degli incontri era sempre il più giovane: Aurelio D’Angelo, universitario iscritto alla facoltà di giurisprudenza. Era infatti sempre lui a chiudere le discussioni, facendo valere le sue argomentazioni. Il maresciallo Aurucci, anche se era rientrato in paese insieme alle famiglie Granito, Prezioso e compari Libutti, veniva a trovarci, proprio con l’intento di partecipare a quelle riunioni particolari. I genitori partecipanti, in separata sede, avevano il compito di mettere a parte i più grandi dei figli non maggiorenni di quanto si stabiliva in quegli incontri. Perché non ne parlassimo con altri, ingigantivano la portata degli effetti disastrosi che potevano derivarne.   

    Noi ragazzi dovevamo fare una sola cosa con la massima attenzione, per i rischi a cui si andava incontro. Una volta entrati in paese con le donne, come avveniva quasi ogni giorno, dovevamo recarci al rione Potasso, ai sedici ponti della ferrovia Potenza Foggia, alla periferia dell’abitato, inoltrarci in via Catavatta sfociante sulla Statale 93 tra il passaggio a livello e i cinque ponti, appostarci sotto la scarpata della statale ad osservare se, lungo la ferrovia o la statale, passassero soldati italiani sbandati. Mica era poco! Noi, per non dare nell’occhio, ci sedevamo sotto la scarpata della strada e stavamo ad aspettare fino a mezzogiorno. Le prime volte eravamo in quattro: io di dodici anni, mio fratello Antonio di otto, Donatino Granito ed Antonio Di Lorenzo di tredici. Per assolvere il suo compito con noi, mio fratello dovette imparare subito a giocare a carte. 

    Quando la famiglia Granito lasciò il rifugio, anche Donatino venne meno alla nostra compagnia. Tuttavia più volte, lasciando il lavoro del mulini su via Roma, è venuto a trovarci al solito posto, per stare con noi. Più volte ci capitò di contattare militari che, a piedi, tornavano a casa come sbandati. Alcuni erano completamente vestiti con abiti militari, altri con pantaloni o giacche civili miste al grigioverde delle loro divise, altri ancora coperti da abiti civili rattoppati e di colori vari. Non viaggiavano mai da soli, ma in coppia o, al massimo, a gruppi di tre persone; essi ci riferivano che degli sbandati circolavano anche a gruppi e senza graduati. Quando li contattavamo, ci chiedevano se ci fossero tedeschi nelle vicinanze. Avuti i ragguagli necessari continuavano il loro cammino, o decidevano di venire con noi, soprattutto se erano affamati.

    In tal caso, per raggiungere il nostro rifugio in campagna, arrivati ai sedici ponti non ritornavamo per via Roma attraverso il paese, perché c’era pericolo di incontrare i tedeschi. Scendevamo per la strada di contrada Piazzolla, uscivamo su contrada Frascolla, dove oggi abitano i fratelli Traficante e imboccavamo la strada per Solagna della Noce. Così gabbavamo il nido di mitragliatrici che i tedeschi, in posizione defilata ma dominante, avevano disposto al margine della ferrovia sull’Aia di Coppa, dove gli sbandati sarebbero stati catturati o falciati. Oltrepassato i rifugi dei D’Angelo e dei Brescia, ci fermavamo davanti a quello di mio nonno. Qui le nostre massaie stendevano, oltre che panni, anche spaghetti. La macchinetta per fare gli spaghetti funzionava continuamente e le canne per appenderli ad asciugare non mancavano. Nei primi giorni da sfollati, anche se eravamo più numerosi, se ne preparavano di meno, perché c’era sempre qualcosa portata da casa non ancora consumata. In seguito, anche quando eravamo diminuiti di numero, bisognava prepararne di più per tenerli in riserva e pronti da cucinare per eventuali arrivi di soldati sbandati, da noi ragazzi contattati e condotti al nostro rifugio. Tenevamo da parte indumenti civili usati, rastrellati dalle nostre donne nelle case del vicinato, quando rientravano in città.  
    Mia nonna, che non sapeva cosa fosse successo al figlio Arcangelo, la nipote Luisa di Lorenzo, che teneva il marito prigioniero degli inglesi, le signore Vernavà e Grieco, che avevano rispettivamente il figlio Antonio in Marina e Donato con l’ARMIR in Russia, erano le più attive nella ricerca degli indumenti: bussavano a tutte le porte. Il cuore diceva loro che qualcuno avrebbe potuto fare altrettanto per i loro cari disseminati per i vari fronti di guerra. L’arrivo degli sbandati era prevedibile perché, durante le tappe quotidiane, si spostavano sempre seguendo la ferrovia, che era la loro bussola per il Sud. 
      In campagna le tavole non erano come quelle domestiche, ma per lo più traballanti ed irregolari. Non c’era nemmeno abbondanza di piatti, perciò le vivande venivano dispensate in spase e spasette, intorno alle quali si mangiava in più persone. Non si consumava carne ovina o bovina, ma soltanto polli e conigli allevati nella parte esterna del grottone, dai quali si ottenevano dei sughi che ti inuzzolivano e ti facevano dimenticare le tristi vicende del momento. C’era abbondanza di frutta di stagione: pere, pesche, fichi, prugne e qualche grappolo di uva precoce.  

Non dimenticherò mai gli atteggiamenti che mia nonna assumeva, quando tentava di ottenere qualche notizia o fatto importante relativo alla situazione dei nostri soldati e quindi del figlio Arcangelo. Quando rigirava la pasta nel grosso calderone per gli sbandati ripeteva sempre “Chisà s’Arcangl’ mij, nguarche bbona gent’ ngi raij na tozz’ r’ pan… Chissà se ad Arcangelo mio qualche buona gente gli dà un tozzo di pane… Io avevo l’impressione che a quelle parole, accompagnate da qualche lacrima non trattenuta, a quei poveri soldati si fermasse il cibo in gola. Certamente in quel momento anch’essi pensavano alle mogli, ai figli, alle fidanzate, ai genitori. Li avrebbero rivisti presto? Avrebbero continuato ad aver fortuna a non incontrare tedeschi e fascisti? Quelli che noi ragazzi abbiamo incontrati e portati al rifugio di mio nonno erano tutti calabresi e siciliani, tranne uno di Potenza e un campano: otto in tutto. Alcuni avevano attraversato centinaia di chilometri della nostra penisola, a piedi e in parte su mezzi di fortuna offerti loro dalle popolazioni rurali, che li avevano aiutati e sostenuti. 

    A queste notizie, arricchite anche da particolari, mia nonna si calmava. Poi, da vera pia donna, entrava nella stanza sinistra dell’abitamento e si metteva a pregare davanti ad un crocefisso vecchio ed annerito dal fumo del camino, sulla cui canna fumaria stava appeso ad un chiodo da decenni.     

 

Sentinelle 

Ogni tre giorni, le donne e le ragazze tornavano in paese per panificare[2] e per la pulizia personale. Io salivo con loro e con mia cugina Ida, che aveva già sedici anni e poteva dare una mano per la panificazione. Tutti gli altri, ragazzi e bambini, rimanevano in campagna sotto la tutela di mio nonno. Quando rientravo in paese notavo che, all’imboccatura del ponte sul quale passa la ferrovia Potenza-Foggia, c’erano sempre due, e qualche volta anche quattro soldati di guardia, con uniformi e mostrine diverse. Io non capivo niente di divise e mostrine. Da mio padre e dal maresciallo Aurucci, il quale vestiva abiti civili, seppi che i militari  erano di nazionalità italiana e tedesca. Erano armati di fucili, i tedeschi tenevano infilate alla cintola anche bombe a mano. Nei primi giorni ci fermavano e ci frugavano, temendo che portassimo armi.  Poi, vedendo sempre le stesse facce, non ci perquisivano più e ci lasciavano passare facilmente. D’altra parte mia nonna, con la saggezza che la contraddistingueva, nel rientrare in paese offriva ai militari un grappolo d’una e frutta di stagione. Quando si usciva dall’abitato non ci perquisivano mai. Non lo hanno fatto nemmeno nei primi giorni: chi entrava poteva essere un potenziale nemico, non chi usciva.Noi scambiavamo saluti e qualche parola con gli italiani, che non erano sempre gli stessi, ma tutti paracadutist i. Qualcuno, con molta cautela, riusciva a dirci che desiderava qualche abito civile, perché aveva intenzione di staccarsi dai tedeschi. Qualche giorno dopo non lo si incontrava più perché, Dio sa come, eravamo riusciti ad accontentare il suo desiderio. Altri, invece, facevano la voce grossa e nell’atteggiamento erano peggio dei tedeschi.   

Nella sede del comando alloggiavano, tra graduati e soldati semplici, soltanto una decina di uomini. Il resto della truppa, non molto numerosa,  risiedeva in altre zone della città, una delle quali, se non sbaglio, si trovava nella periferia Nord-Est di Rionero, dove c’è l’odierna via Fornaci. I tedeschi e i collaborazionisti, credendo che gli angloamericani avrebbero usato la Statale 93, avevano collocato due posti di osservazione muniti di mitragliatrice: uno sulla torre dell’Orologio della Costa, per controllare anche eventuali movimenti interni; l’altro sull’Aia di Coppa, poco distante dalla ferrovia sulla quale transitavano, a piedi, i soldati sbandati dell’esercito italiano da fare prigionieri. 
      Anche se l’aumento dei soldati tedeschi era solo temporaneo per motivi logistici, tuttavia faceva crescere la tensione fra la popolazione, nella quale si diffondeva, finalmente, la convinzione che le milizie ex alleate erano una grossa iattura per tutti e ritenute anche esorbitanti per una cittadina come la nostra. Avevano bisogno, infatti, di un vettovagliamento più grande e quindi rapinavano di tutto: galline, conigli, ovini.    Durante questo tran tran settembrino, anche mio nonno un giorno volle rientrare in paese; mia nonna lo sostituì nella custodia dei piccoli. Entrato in paese, la prima sorpresa fu quella di vedere che Marco Cappiello aveva avuto la medesima idea due giorni prima. Le abitazioni dei due vecchi amici erano distanti una quarantina di metri su via Mazzini. Quel giorno, Marco Cappiello stava fermo sulla strada, tra l’abitazione sua e quella del nonno.

   Era palesemente tremante e tutto agitato. Mio nonno gli chiese come si sentisse. Gli giunse come risposta solo un balbettio. Alle premure di mio nonno, il vecchio amico si calmò alquanto e ci disse: fra poco capirete tutto.  Dopo pochi istanti, infatti, giunse alle nostre orecchie lo starnazzare e il dibattersi di galline e conigli. Due militari tedeschi ed uno italiano erano entrati nel grottone di Marco Cappiello per continuare a rapinare conigli e galline, come facevano da qualche giorno prima.

    Poco dopo uscirono col bottino e si diressero verso la sede del loro comando alle casette asismiche. Marco Cappiello: “Adesso vanno a casa di Rocco Curto, si fanno dare una bottiglia, d’olio ed un caldarino di metallo, entrano nel comando, cucinano, mangiano, e poi tornano a restituire il caldarino a Rocco, Fanno così da qualche giorno e chissà quando se ne andranno. Io sto zitto, perché ho paura che mi facciano qualche male.” Qualche giorno dopo, un fatto analogo accaduto nel versante occidentale del paese, a Chian’cantin, Piano delle cantine, avrebbe provocato l’eccidio del 24 settembre, che è valso a procurare a Rionero la medaglia d’argento al valor civile a sessant’anni di distanza.

 

La fame e i saccheggi  

Tutta l’Italia, in quel periodo, era in uno stato di assoluta prostrazione. La fame si leggeva sul volto di tutti, soprattutto su quello dei grandi i quali, pur quando si riusciva a racimolare un po’ di farina o pane col contrabbando, mangiavano meno del necessario, per risparmiare qualcosa da offrire ai più piccoli. Il consumo giornaliero delle derrate, previsto per le famiglie e ritirato dalle drogherie e dai forni con tanto di tessera annonaria, era del tutto insufficiente. La gente aveva quasi dimenticato come era fatto il vero pane, perché si era abituata a mangiare pane nero o rossiccio. I vestiti delle persone erano così pieni di toppe diverse, da non farne ricordare la stoffa originaria. L’illuminazione pubblica era sospesa già da oltre un anno, per non far individuare facilmente gli agglomerati urbani dagli aerei nemici carichi di bombe. Anche all’interno delle abitazioni, se queste non erano dotate di schermi che ne impedissero la vista dall’esterno, non era possibile usarla. Intorno alle fonti di luce, anche se di lucerne o lanterne a gas, poiché non tutti disponevano di illuminazione elettrica, bisognava procurare schermi con carta o indumenti anneriti. Per questo motivo era stato coniato il famoso detto dialettale: 

  Duce, Duce, cumm’ n’hai fatt’ arridduce…  
Lu iurn’ senza pane, e la ser’ senza luce…  
Chi soffriva di più erano gli operai del bracciantato gli artigiani che non possedevano fondi rustici. Non che i contadini stessero bene… avevano la possibilità di arrangiarsi meglio e basta. Solo i proprietari di fondi relativamente grandi, ma “rubando a sé stessi” disponevano del necessario per vivere e barattare i loro beni per altre necessità. Anche per i latifondisti e i cittadini più ricchi il problema esisteva, perché la precarietà si avvertiva da tutti i ceti sociali. C’era penuria di tutto e per tutti, ma la povera gente soffriva di più.  Nel nostro rifugio, in verità, si soffriva abbastanza, ma meno che altrove. Da noi la guerra intesa come scontro di eserciti, nella rapida ritirata dal sud dei tedeschi, non c’era.  E tuttavia una specie di psicosi di primitività, alternata al desiderio di sfogare la collera covata in corpo, si impadroniva di molti. Alcuni, per timore di sbagliare o di essere di disturbo ad  avversari ed amici, preferivano soffrire nel silenzio, in attesa di tempi migliori. In altri, invece, la collera suggeriva il desiderio di vendetta, come sfogo liberatorio.  Così anche Rionero mostrò il  vero volto della sua disperazione, che giunse al culmine prorompendo in aperta violenza.  Fra il 16 e il 17 settembre il paese sembrava la Milano in rivolta di Manzoni. Il giorno 16 vi fu l’assalto ai depositi della VII Armata, dislocati nelle casette asismiche del rione Sant’Antonio. Al saccheggio partecipò tutto il paese, anche se i più avvantaggiati risultarono gli abitanti dei vicini rioni del Calvario e Chian’cantìn. Qui, man mano che giungevano le notizie e, con queste, i primi segni del saccheggio anche negli altri quartieri, sempre più la folla aumentava di numero e, spesso, si verificarono baruffe, per togliersi di mano a vicenda la roba migliore. Quando la notizia giunse a mio padre, dall’altro lato del paese, anch’egli si avvio verso il rione Sant’Antonio. Ebbe la ventura di incontrare il suo amico Donato Lamorte, il quale tornava dalla campagna col mulo, al cui basto era legata una sporta. Gli riferì il fatto e lo convinse ad andare insieme, con la speranza di trovare ancora qualcosa. 
Giunsero sul luogo del saccheggio troppo tardi, perché farina, riso, scatolame, prodotti caseari e quant’altro di buono era completamente sparito. Tuttavia Donato e mio padre furono fortunati, perché dietro una delle casette asismiche c’era un uomo più anziano di loro, il quale stava seduto su due sacchi di riso che non poteva trasportare per il peso, e tutto timoroso che altri glie lo sottraessero. Mio padre e Donato gli fecero la proposta di dividere il riso, con l’impegno che l’avrebbero accompagnato a casa a dorso del mulo. L’anziano, considerata la situazione, accettò. Mentre i due caricavano il mulo, mio padre era penetrato nella casetta ed era riuscito a riempire la sporta di Donato di surrogato di caffè. Era l’unico prodotto rimasto, perché i saccheggiatori avevano portato via le cose migliori. Prima che mio padre e Donato giungessero alle casette, si era verificato l’intervento delle forze dell’ordine cittadine e dei rappresentanti del Comune. I loro intenti e i tentativi per realizzarli furono vani: la folla affamata e violenta non si era fermata nemmeno di fronte ai colpi di pistola sparati in aria a scopo intimidatorio.  
  Alcuni tedeschi di passaggio su un mezzo blindato, attirati dalla confusione e dagli spari, intervennero per sedare il tumulto facendo uso delle armi: rimase ferita una donna, Elisa Giordano, e fu colpito a morte un ragazzo diciassettenne, Antonio Cardillicchio. I tedeschi poi dettero fuoco alla casetta, nella quale morì arsa viva la donna precedentemente ferita, e andarono via.  Il giorno dopo, invece, il saccheggio si verificò nel centro cittadino in Piazza Giustino Fortunato, a danno di privati cittadini: i nostri compari Antonio Brenna e Luigi Maggiorella.
    Il primo gestiva il più grande e assortito esercizio di generi alimentari; poiché abitava sul negozio, altre al danno subì la beffa di esserne spettatore dal balcone di casa. Il secondo, invece, aveva un negozio di scarpe “cittadine” e pellami vari.  Verso il 20 settembre Potenza era stata liberata dagli alleati. Iniziava quindi la ritirata delle truppe naziste dalla nostra regione, per evitare di essere accerchiate. La strada statale 93, che aveva visto passare le truppe dell’Asse che scendevano al Sud  per arrestare l’avanzata alleata, ora vedeva risalirle in ritirata. Rionero era punto di riferimento per la ritirata, anche per la presenza della stazione ferroviaria.  In quei giorni crollò il ponte ferroviario sulla statale n. 8 per Ripacandida, preventivamente minato dai tedeschi. Il 21 settembre, rientrando in paese per panificare, trovammo il ponte ridotto ad un cumulo di macerie, al disopra delle quali si intravedevano le traverse dei binari spezzate, alcune libere, altre semisepolte. 
Qualche giorno dopo, un vecchietto delle vicine case asismiche, volendo far provvista di legna, pensò di portarsi a casa qualche spezzone di traversa, ma restò straziato dallo scoppio di una mina inesplosa o appositamente coperta, insieme ad una donna fortunatamente rimasta solo ferita.  Infine anche Rionero ebbe il suo bombardamento, il 22 settembre. Le bombe caddero tra la stazione  ferroviaria e la sede del comando tedesco, sistemato in una casetta asismica, oggi trasformata in abitazione normale dal proprietario Roberto Iosca.

 

La notte del bombardamento, mio padre non era solo in casa, come faceva da quindici giorni per proteggere la nostra abitazione da eventuali sciacallaggi. Con lui c’era anche mio fratello Antonio, che il giorno prima era stato riportato in paese perché, colto da febbre malarica, aveva bisogno di una visita a presso l’ambulatorio antimalarico di don Federico Anastasia, a pochi metri da casa. Mio padre, quindi, fu costretto a portarsi mio fratello Tonino in braccio con tutto un armamentario di coperte necessarie per combattere il tremito della malaria, in una cantina situata sotto un grosso caseggiato di fronte alla nostra abitazione. Per fortuna, le bombe sganciate furono solo due e si ebbe solo una vittima.  

 

La strage  

Durante una delle razzie al rione Chian’cantin si verificò un incidente. Una donna gridò e Pasquale Sibilia, credendo che i razziatori la molestassero, intervenne ferendo con un colpo di pistola la mano di un paracadutista italiano collaborazionista, il sergente Garofalo. Il capitano collaborazionista Edoardo Sala voleva far saltare in aria la casa del Sibilia, per punizione; la rappresaglia [3] che ne seguì, in realtà, fu più dura. Il Sibilia ed altri, rastrellati per le strade con la scusa che si dovevano eseguire dei semplici lavori di scavo, furono falcidiati da una mitragliatrice, mentre tenevano in mano gli attrezzi da scavo.

    Di essi si salvò solo mastro Stefano De Mattia, svenuto al rendersi conto di quanto accadeva e capitato sotto i corpi degli altri. Chi dava il colpo di grazia ai caduti non ritenne necessario farlo con  De Mattia, il quale aveva la testa tutta arrossata del sangue di altri compagni ed il pallore della morte sul viso.  
        Questi i nomi dei trucidati: Emilio Buccino, i fratelli Pasquale e Pietro Di Lucchio, Antonio di Pietro, Marco Grieco, Michele Grieco, Donato Lapadula, Giuseppe Antonio Libutti, Donato Manfreda, Giovanni Manfreda, Pasquale Manfreda, Antonio Santoro, Gerardo Santoro, Giuseppe Santoro, Pasquale Sibilia.  
         A noi non resta che pregare per loro ed insegnare ai nostri figli a ricordarne il sangue versato senza motivo, nelle speranza che aberrazioni simili non accadano più. Per un dettagliato resoconto dell’eccidio, si consiglia la lettura del libro Gli anni difficili, Rionero 1943 di Paolino Di Giovanni, che ha trattato i fatti con dovizia di prove testimoniali e documentazione ricavata dagli archivi della Corte d’Appello di Potenza. Qui si svolse il processo intentato contro Ubaldo Libutti, comandante dei vigili urbani di Rionero, ed i collaborazionisti repubblichini, con l’imputazione di “aver avuto parte attiva” sia nella triste vicenda del saccheggio dei viveri della VII Armata italiana nelle casette asismiche di Sant’Antonio, sia nell’istigare i nazifascisti a compiere l’eccidio del 24 settembre. Il processo durò circa dieci anni, perché fosse chiuso definitivamente, ma nessuno pagò per quelle vittime innocenti. Al rione Piano delle Cantine, all’estrema periferia nord ovest di Rionero, dove avvenne la strage, c’è oggi un giardinetto con un monumento dove sono incisi i nomi dei fucilati, e una lapide con quelli dei due periti nel saccheggio.  

 

Notte movimentata

Due sere prima  dell’eccidio del 24 settembre sul nostro rifugio si era verificato un fatto straordinario. Nella giornata ci eravamo spostati in contrada Pesco, per la raccolta del granturco, le cui pannocchie avevamo trasportate alla Solagna della Noce per la spannocchiatura. Mentre le donne, benché sera, continuavano in questo lavoro approfittando di un bel chiarore di luna, mio nonno preferì ritirarsi nel pagliaio a meditare sui suoi guai o, come dicevano le donne sottovoce, a nascondersi sotto le coperte per non ascoltare quei discorsi sulla guerra che lo tenevano continuamente in agitazione.   

    Erano circa le ore 23, quando Guerino e Meschino, i nostri due grossi cani da guardia che tenevamo legati durante la notte, cominciarono prima ad emettere sordi ringhii, che fecero zittire le donne e qualche grandicello come me rimasto a vegliare con loro. Dopo alcuni attimi che sembrarono secoli, i due cani cominciarono a latrare a più non posso e a correre verso il lato nord dell’abitamento, inarcandosi sulle catene, quasi volessero spezzarle.  
     “Zitti, zitti - diceva nonna Pasqualina. - Qualcuno si sta avvicinando. Se si trattasse di mio figlio Pasquale i cani non abbaierebbero, perché dal fiuto lo riconoscono a distanza. Forse c’è qualche tedesco in giro oppure qualcuno dei D’Angelo o dei Cappiello, che vengono a trovarci per qualche serio motivo.” Nonna Pasqualina sapeva benissimo che a quell’ora gli attendati dei rifugi vicini non andavano in giro, ma lo aveva detto per calmare un po’ l’inquietudine generale. Perciò, in cuor suo, si augurava che nulla di grave si verificasse e che il passante fortuito, se di passante si trattava, cambiasse rotta e non si avvicinasse all’abitamento. I cani, però, non smettevano di abbaiare e ringhiare.  
    Di lì a poco si sentì un fischio modulato, seguito a breve intervallo da una voce che diceva: “Ehi! Di casa! Sim’  italiàn. Ci putìm’ avvicinà?”  
    “Chi siti?” chiese la nonna alzandosi sul mucchio delle pannocchie e sforzandosi di vedere se, al chiarore lunare, si distinguesse qualche figura umana. Poi, rivolgendosi verso il grottone, aggiunse: “Pasquà, Nicòl, pigliate lu fucìl. C’è gènt’ ca ci vol’ mul’stà.”  
    Nonna Pasqualina per la seconda volta aveva detto una menzogna; lei, che non sapeva nemmeno cosa fosse! Di uomini c’era soltanto il nonno, in compagnia di pochi nipoti maschi. Egli era uscito dal pagliaio e, nonostante la drammaticità del momento e un po’ di tremarella, sembrava mostrare una calma olimpica, mentre serrava tra i denti la cannuccia della sua inseparabile pipa di argilla rossa. Si avvicinò ai cani per calmarli e, se ce ne fosse stato bisogno, di allentarli contro gli sconosciuti.  
    “Possiamo venire?” si sentì dire da una persona, la cui voce proveniva dal lato nord del rifugio. Ci fu un lungo attimo di silenzio, poi nonna Pasqualina, nonostante i brontolii del nonno, rispose di sì. Alla luce della luna si stagliarono prima due esili figure umane, poi, pian piano, una lunga fila indiana. Man mano che si avvicinavano al mucchio delle pannocchie, parlottavano fra loro e dai loro atti si poteva capire che erano contenti.  Erano ben dodici uomini, tutti con vestiti a brandelli ed impolverati. Alcuni avevano dei panni che coprivano solo le spalle, altri sandali semirotti, parecchi portavano quelli che erano i resti di scarpe e divise militari sforacchiate. Qualcuno era coperto di abiti civili, anche se rattoppati alla meglio.  
    Vedersi un così folto gruppo di uomini intorno per le donne fu un brutto colpo. Qualcuna già emetteva qualche esclamazione che significava terrore. Quello che pareva il capo si diresse verso mio nonno e disse: “Signore, se avete dei dubbi sulle nostre intenzioni, noi ce ne andiamo subito e togliamo ogni disturbo. Per favore, però, diteci almeno quale dovrà essere la nostra direzione di marcia per Potenza.” Mio nonno stava per rispondere, ma quello continuò. “Siamo soldati italiani. Non siamo briganti o tedeschi. Vi preghiamo solo di indicarci la direzione verso Potenza, senza incontrare tedeschi.” Il nonno aveva capito subito tutto, ma rispose solo quando il soldato aveva finito di esprimersi, per raccogliere anche lui parole più rassicuranti per tutti. Nel frattempo anche mia nonna si era avvicinata e, al sentire che erano soldati sbandati, avvertì nelle sue carni un forte tremolio a pensare a suo figlio Arcangelo, sbandato pure lui. Sentì subito un nodo alla gola e non poté dire altro che “Ass’ttat’v, figliùli”.  
    I dodici cominciarono a prendere posto sotto il pergolato. Qualcuno già si stendeva per addormentarsi subito e scrollarsi  di dosso la terribile stanchezza. Il nonno pregò le nostre donne di portare fuori dal grottone delle balle di paglia, alcuni pagliericci e panni, perché i soldati potessero dormire almeno con le spalle coperte. Con quelli che non si erano addormentati si cominciò a fraternizzare. La nonna, dai loro volti stanchi ed emaciati, capì subito che erano affamati.Mentre i soldati si sistemavano alla meglio, quello che sembrava il capo ed era rimasto a parlare con noi, si schermì dalle offerte dei nonni di voler cucinare qualcosa per loro. “E’ tardi e siamo in molti - diceva - vi ringraziamo, ma non possiamo accettare. Siamo in molti, e coi tempi che corrono... Grazie, buona gente, sappiamo arrangiarci; la stagione è buona e la frutta non manca.” Si capiva, però, che nonostante tentasse di negarlo, avrebbe tanto desiderato qualcosa di caldo per sé e i suoi compagni. Ormai alcuni già russavano; l’ora era tarda, e si decise di andare tutti a riposare.
   “Non si sa mai con certezza cosa può capitare - disse il nonno alle donne quando rimase solo con loro. - Mi raccomando! State con gli occhi aperti! Tanto mancano solo poche ore e sarà giorno di nuovo.” Le parole e le decisioni del nonno non si discutevano mai. Quella sera sembravano gravi come quelle di un profeta. I piccoli che si erano svegliati si erano rimessi a dormire con le madri, ma queste non chiusero occhio per il resto della notte. Precauzione inutile! I soldati dormivano tutti della grossa perché in un luogo sicuro, come non era loro successo nelle notti precedenti. Alcuni si lagnavano e si giravano nel sonno, per i morsi della fame o per le tristi visioni che forse popolavano i loro sogni.  
    Il sole si era alzato, ma i soldati continuavano a dormire, nonostante il vociare di alcuni bambini che arrivavano in punta di piedi a curiosare vicino ai nuovi arrivati che, nella loro innocenza, consideravano degli intrusi. Dalla ciminiera centrale del grottone, intanto, continuava ad uscire fumo, come nei mesi di giugno e luglio, allorché scioglievamo pezzi di azzurro solfato di rame in un grande calderone di rame rosso, per mescolarlo alla calce bianca ed irrorare i vigneti. Stavolta, però il calderone di rame rosso era staianato... stagnato, quello che serviva a bollire pura acqua di fonte.  Bisognava preparare da mangiare a quei poveri figli di mamma e giacché ci si trovava, fare colazione tutti insieme con un piatto caldo. Mia nonna si dava da fare intorno al calderone, aiutata da mia madre, mia zia, mia cugina Ida. Furono cotti quattro o cinque chili di spaghetti: allora non esistevano secondi piatti, solamente frutta e spaghetti conditi col sugo di pomodoro. I soldati si accostarono a tre a tre alle spasette ben colme e fumanti, sistemate su un lungo e largo tavolone sostenuto da quattro pisciùli, sedili ricavati da grossi tronchi cilindrici e lisci. Si mangiava stando seduti su scannetti più bassi attorno al tavolone. Anche se per poco, soldati e civili avevamo dimenticato la guerra.  
    Appena finito il pasto mia nonna, come aveva fatto con altri sbandati, prima con disinvoltura e poi con malcelata commozione cominciò a fare domande, chiedendo informazioni sulla situazione dei nostri soldati. Da quando ci eravamo rifugiati in campagna, in casa Crovace in via Mazzini nessuno più ascoltava la radio, tantomeno Radio Londra. Mia nonna continuava a cercare notizie sulla sorte del figlio Arcangelo che prestava servizio militare in Friuli a Gemona, Udine, Piedicollo...Fra qualche iurn’, signò, adda arrivà pur’ iss’ - disse un soldato campano.  Non si preoccupi vussìa” aggiunse un altro in dialetto siculo.  “Sìm tutt’ figl’ a Dij, signò - interloquì un potentino - San Gerard ver’ e pruvvèr: lu ‘uaglion vust’ è sott’ la mana soia e adda turnà sub’t.” La nonna era diventata rossa come la brace e il nonno caricò ancora la sua pipa nel vano tentativo di non essere colto dal pianto. Si fece un profondo silenzio: era arrivato il tempo della partenza e dell’addio. Si sentiva solo il crepitio della cannuccia intartarata della pipa del nonno, che allora aveva imparato a caricarla con foglie di tabacco miste a quelle di patata.  
    I soldati ci dissero che intendevano continuare il viaggio di ritorno ai loro paesi  su strade di campagna, ma alla vista del paesaggio di fronte, formato da un susseguirsi di serre e profonde vallate, vollero sapere se conoscevamo qualche strada che abbreviasse il loro cammino. Rispondemmo che c’era una strada che, dove si e dove no, costeggiava la ferrovia; ma non sapevamo se fosse sorvegliata.
    La ferrovia si stagliava ben visibile dal nostro fondo perché, dove oggi c’è il cavalcavia della superstrada con l’uscita per Rionero, essa corre su un terrapieno di sollevamento del suo livello. Mio nonno stava informando i soldati su ciò che egli conosceva, ma la risposta più chiara alle loro domande venne dal crepitio di una mitragliatrice proveniente proprio dalla direzione della strada ferrata. Ci voltammo in tempo per vedere delle persone che saltavano da un carrello che avanzava sul binario, mentre una sola continuava ad azionare la leva, ma sempre più lentamente con le braccia sul manubrio.  
    Era successo che degli sbandati, arrivati alla stazione di Rionero, erano saliti sopra un carrello abbandonato avviandosi verso Potenza. Erano passati davanti al nido di mitragliatrici disposta sull’Aia di Coppa senza che venisse aperto il fuoco, ma solo per entrare nel campo di tiro di un’altra postazione, che quel giorno era sistemata su serra San Francesco. La raffica della mitraglia aveva colpito a morte chi era al centro del carrello; gli altri, più fortunati, erano saltati giù illesi. Il carrello continuava ad andare sul binario per forza di inerzia, facendo dondolare anche la gamba del soldato morto, finché si fermò e cominciò il viaggio alla rovescia fino al casello 75, perché prima procedeva in leggera salita. I soldati nostri ospiti, dopo quella triste vicenda, decisero di continuare il viaggio attraverso la campagna. Mio nonno indicò loro la direzione da tenere fino al casello 78, perché dopo avrebbero potuto seguire la ferrovia, il cui tracciato attraversava solo boschi quasi fino a Potenza. Dopo i ringraziamenti di rito la comitiva si rimise in viaggio. Chiudeva la fila del gruppo quel soldato che era giunto con le spalle nude; era coperto da una vecchia giacca di mio nonno e vestiva un pantalone quasi nuovo che le nostre donne avevano avuto dalla famiglia di compare Nicola Sicuro, che aveva anch’egli un figlio soldato di cui non conosceva le sorti.    
   

La liberazione  

Noi dei rifugi di Solagna della Noce, il 27 settembre, tre giorni dopo l’eccidio, fummo attratti da una sparatoria fitta, non continua, intermittente. A est di fronte a noi, tra Ginestra e Ripacandida, benché col sole negli occhi, distinguevamo due linee di fumo a qualche centinaio di distanza fra loro. Era circa mezzogiorno. Pur avendo capito che si trattava di uno scontro fra due parti avverse, non ne sapevamo il perché e quindi facevamo tante ipotesi in proposito. Lo scontro durò poco più di una sola ora. Poi tutto tacque. Verso le 13 e 30 stavamo pranzando all’aperto, allorché pervennero i fratelli D’Angelo, per consultarsi con noi. Si arrivò subito a comprendere la realtà: avevamo assistito ad uno scontro tra retroguardia tedesca e avanguardia alleata. Ecco perché, da circa una settimana, a Rionero c’era un reparto di guastatori tedeschi, quelli che entrano in azione all’ultimo momento e scappano via ad occupare altre posizioni di coda; qualche giorno prima avevano fatto crollare il ponte ferroviario.  

   Quanto ipotizzato sullo scontro armato veniva subito confermato, mentre si discuteva ancora. Sul piazzale del rifugio comparvero improvvisamente due soldati tedeschi, con il fiato in gola e madidi di sudore. Uno era claudicante per una ferita al tallone che arrossava di sangue il resto della scarpa, il cui tacco era stato portato via da un proiettile. Per tenersi in piedi, il ferito appoggiò ambedue le mani al tronco di un mandorlo, che chiamiamo ancora oggi mandorlo del tedesco ed è quasi secco. Con voce tremante diceva “Aqua, Aqua! Amerikanen! Amerikanen!” Come avesse fatto a pervenire da noi col tallone ferito ed attraverso i filari dei vigneti, che non agevolavano il suo cammino, sembrava inspiegabile. La paura della morte e l’istinto di conservazione avevano certamente contribuito a fargli compiere lo sforzo. Oltretutto, anche se in fuga, portava ancora il fucile e un certo numero di bombe a mano appese alla cintola, simili a corti manganelli. Con le armi e con un compagno vicino forse si sentiva più sicuro. I nostri amici e parenti si guardarono in faccia e si intesero sul da farsi: eliminare i due tedeschi. C’era un grosso rasolone, canale raccoglitore di acque dilavanti, a due passi. Li avrebbero interrati lì. Mio nonno, uomo pacifico per natura e memore dell’eccidio di tre giorni prima, si mise le mani tra i pochi capelli, si girò e cominciò a camminare piano sbraitando e quasi piangendo “T’rror! T’rror nust’! Nòn, nòn, Noneee! Terrore! Terrore nostro! No, no, nooo!”  
    Il tedesco ferito lasciò l’appoggio sull’albero e imbracciò il fucile, temendo il peggio. Mio padre e i fratelli D’Angelo misero contemporaneamente gli indici delle loro mani alla tempia, toccandola ripetutamente, come per dire “è pazzo”. Il tedesco si calmò e chiese ancora acqua. Gli fu portato un cìc(i)no – orciuolo – di acqua fresca, che bevve avidamente. Poi, mentre continuava a dire “Amerikanen, Amerikanen” con la mano distesa verso il luogo dello scontro e con gli occhi quasi fuori dalle orbite, riprese il cammino, o meglio la fuga, verso Rionero, insieme all’altro che ogni tanto lo sorreggeva. Lascio al lettore immaginare la sfuriata di mio nonno, dopo che i due tedeschi erano lontani.  Quella sera, appena le tenebre fecero intravedere un cielo pieno di limpide luci stellate, bagliori rossi balenarono davanti ai nostri occhi, abbattendosi con boati assordanti lungo l’alta costa che circonda la periferia di Ripacandida, illuminata a giorno da razzi cadenti lentamente dall’alto. I tedeschi in ritirata bombardavano la malcapitata cittadina, servendosi di cannoni di medio calibro ed illuminando con i bengala il bersaglio. Forse sapevano, o speravano, che gli alleati, dopo lo scontro delle ore antimeridiane, si erano accampati alla periferia di Ripacandida; quel bombardamento era un messaggio preciso ai loro nemici, per far capire che essi erano decisi a farsi valere. 
    La mattina dopo, 28 settembre, prima che arrivassimo alle macerie del ponte ferroviario, sulla provinciale n. 8 per Ripacandida, un gruppetto di militari con berretti a larghe tese come i cappelli dei cow boy e con divise sgargianti ci fermò. A gesti ci fecero capire di pazientare un po’ e ci offrirono pezzi di cioccolato e bottiglie di coca cola. Altri militari, che poi abbiamo saputo che erano canadesi e indiani, reggevano tra le mani lunghe canne metalliche, sulla cui punta c’era un aggeggio curioso: erano strumenti coi quali perquisivano il suolo in cerca di mine. Dopo pochi minuti ci fu permesso di entrare in paese e, sullo spazio dove c’è oggi la rotatoria, denominato le Crocecchie per la presenza di un gigantesco crocefisso monumentale – ora scomparso e sostituito da una piccola croce metallica resa invisibile dai cartelloni pubblicitari – ci imbattemmo in un folto gruppo di rioneresi vocianti ed acclamanti verso alcuni soldati comodamente seduti su alcuni carri blindati, che lanciavano pacchi di biscotti, caramelle, cioccolato, sigarette, scatolame e quant’altro potesse suscitare simpatia nei loro confronti.  

Per entrare in Rionero con speditezza, prima che esaminassero con le loro apparecchiature la sicurezza delle strade, gli alleati avevano provvisoriamente dirottato i loro automezzi per la strada che viene dal rione San Francesco, davanti alla casa dei Curto. I tedeschi e i collaborazionisti della divisione Nembo erano scomparsi e già lontani. Si aspettavano l’arrivo degli alleati dalla Statale 93, perché già dall’inizio di settembre erano entrati a Potenza. Così infatti avvenne, ma col resto dell’VIII Armata; l’avanguardia invece, formata da una brigata canadese affiancata da soldati indiani, all’altezza di San Nicola aveva lasciato la SS 93 puntando su Pietragalla ed Oppido. Per la Bradanica, poi, era sbucata a Venosa e Ripacandida.

 

 

 

A Rionero quel giorno fu gran festa, anche perché già da qualche giorno erano tornati dei fuoriusciti che erano stati in clandestinità. Sembrava che le lacrime, versate nei giorni precedenti per le vittime dei nazifascismi, fossero terminate. La gioia più grande era quella delle mamme, le quali potevano finalmente lasciare i figli giocare liberamente per le strade del vicinato. La cupa atmosfera da incubo era finita per tutti.  

 

  Note

[1] Dal 1946 in poi, erano già passati tre anni, ho studiato a Potenza. C’erano ancora i segni dello sconquasso provocato da quel bombardamento e da altri, che causarono anche vittime.

[2] La mia famiglia disponeva di grano sufficiente per sé, come tante altre del ceto medio agricolo. Nel mio vicinato la famiglia Granito era la più numerosa: ben dieci figli. Il padre, signor Umberto, era mugnaio e gestiva un mulino in Via Roma in società con la famiglia Frascolla. Papà Granito ci faceva trovare molito il grano da noi portato, che era stato nascosto in casa in intercapedini create con la creazione di muri  davanti a quelli preesistenti. Così, i mezza giornata di tempo, si impastava, si infornava e si portava il pane nel rifugio di Solagna della Noce.

[3] Non si trattava di rappresaglia in senso tecnico. Gli ordini di Hitler erano di uccidere 10 italiani per ogni tedesco morto: a Rionero il fascista non solo era italiano, ma era stato ferito solo leggermente. Si rammenti che il processo per le Fosse Ardeatine (33 tedeschi uccisi, rappresaglia su 335 italiani) fu imperniato sui 5 fucilati in più rispetto ai 330 per cui gli imputati potevano invocare, a loro giustificazione, l’ordine di Hitler.

 

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