1943 Memorie di Angelo Domenico Libutti
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Bombe e rifugi a Rionero Dopo lo sbarco degli angloamericani in
Sicilia, avvenuto il 9 luglio '43, a Rionero si avvertiva una certa
tensione. |
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Il fascismo
cadde il 25 luglio, l’8 settembre fu annunziata la resa dell’Italia
agli alleati. La sera dell’8
settembre, mentre eravamo in preda all’euforia per l’annuncio dell’armistizio,
nel cielo di Rionero si verificava uno scontro tra gli aerei da caccia di
scorta ai bombardieri alleati e quelli tedeschi, che cercavano di
disturbare le squadriglie di fortezze volanti.Dal
rumore degli scoppi delle bombe, che rintronò fino a noi poco più tardi,
capimmo che era stata bombardata Potenza
[1]. |
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A Rionero i rifugi più sicuri erano situati in periferia, nelle cave di pozzolana ricche di grotte ampie e asciutte, tra le quali si distinguevano quelle di Rione Sant’Antonio, quelle di Biagio e Rocco Curto, e quelle di Pietro Sacco presso le casette asismiche. In paese, invece, erano usate come rifugi le cantine scavate sotto grandi e solide abitazioni lungo tutte le strade cittadine. Ne esisteva uno in Villa Giannattasio. I rifugi sparsi nelle campagne e nelle masserie erano distanti dal paese, ma più sicuri. I più noti, perché ospitavano più famiglie, erano quelli di don Vito D’Angelo in contrada Querce, dei Traficante al Piano dell’Altare, dei Valenza e dei Tirriciello al Cilentino; altri erano nelle masserie dei Di Leo, dei Consiglio, dei Nigro, dei Traficante, dei Policastro. |
La contrada più
ricca di presenze umane era quella denominata Solagna della Noce.
Qui si trovavano ben cinque rifugi, dei quali due adiacenti di proprietà
delle famiglie di Giulio D’Angelo e di Antonio Brescia; a trecento metri
altri due appartenevano ai cugini Marco e Luigi Cappiello, a pochi metri
di distanza l’uno dall’altro. Nel mezzo era situato quello di mio
nonno Angelo Domenico Libutti, che registrava il più alto numero di
presenze. I due rifugi adiacenti dei D’Angelo e dei Brescia e quelli di
mio nonno erano tutti scavati nel tufo asciutto e debitamente intonacati.
Quelli dei cugini Cappiello erano autentiche case coloniche, delle quali
la più grande apparteneva a zi’Luigi. A queste si accedeva dalla
scorciatoia della statale 8, all’altezza della neviera
di Crocco. Tutti e cinque erano collegati da stradine di campagna. |
L’abitamento che si trovava nel fondo di mio nonno aveva un vasto piazzale antistante. Su questo spiazzo libero, in soli due giorni di tempo, erano state innalzate due baracche con tetti di tavole e lamiere, offerte dal costruttore Antonio Preziuso e trasportate in campagna dai nostri due quadrupedi e dal cavallo del maresciallo della Forestale dottor Aurucci. C’era già, inoltre, un pagliaio di buona fattura contadina, che il nonno volle riservato per sé, sua moglie e me. Nel grottone centrale si sistemarono il resto della nostra famiglia e i Di Lorenzo, nipoti diretti del nonno, perché figli della sorella Clementina. Nelle due stanze adiacenti al grottone centrale alloggiarono, rispettivamente, gli Aurucci e i compari Libutti. Nelle due baracche presero posto i Granito e i Preziuso. Eravamo in 37 tra grandi e piccoli: tredici della mia famiglia, sette dei Di Lorenzo, sette dei Granito, tre dei Preziuso, tre degli Aurucci, quattro dei compari Libutti. Non compresi tra questi erano i capofamiglia, che la sera tornavano in città a sorvegliare le abitazioni, per preservarle da eventuali sciacallaggi e trovarsi puntuali per gli impegni di lavoro del giorno seguente. Così sistemati, rimanemmo per una settimana tutti insieme. |
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Comitato clandestino Il
pergolato sullo spiazzo antistante all’abitamento era stato tagliato per
far posto alle due baracche, ma quello che copriva lo spazio della rotonda,
sotto l’ombrello ombrifero del pino, era rimasto intatto. |
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Noi ragazzi
dovevamo fare una sola cosa con la massima attenzione, per i rischi a cui
si andava incontro. Una volta entrati in paese con le donne, come avveniva
quasi ogni giorno, dovevamo recarci al rione Potasso,
ai sedici ponti della ferrovia
Potenza Foggia, alla periferia dell’abitato, inoltrarci in via Catavatta
sfociante sulla Statale 93 tra il passaggio a livello e i cinque
ponti, appostarci sotto la scarpata della statale ad osservare se,
lungo la ferrovia o la statale, passassero soldati italiani sbandati. Mica
era poco! |
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Quando la famiglia Granito lasciò il
rifugio, anche Donatino venne meno alla nostra compagnia. Tuttavia più
volte, lasciando il lavoro del mulini su via Roma, è venuto a trovarci al
solito posto, per stare con noi. |
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In
tal caso,
per raggiungere il nostro rifugio in campagna, arrivati ai sedici ponti
non ritornavamo per via Roma attraverso il paese, perché c’era pericolo
di incontrare i tedeschi. Scendeva |
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Mia nonna, che non sapeva cosa fosse successo al figlio Arcangelo, la nipote Luisa di Lorenzo, che teneva il marito prigioniero degli inglesi, le signore Vernavà e Grieco, che avevano rispettivamente il figlio Antonio in Marina e Donato con l’ARMIR in Russia, erano le più attive nella ricerca degli indumenti: bussavano a tutte le porte. Il cuore diceva loro che qualcuno avrebbe potuto fare altrettanto per i loro cari disseminati per i vari fronti di guerra. L’arrivo degli sbandati era prevedibile perché, durante le tappe quotidiane, si spostavano sempre seguendo la ferrovia, che era la loro bussola per il Sud. | |
In campagna le tavole non erano come quelle domestiche, ma per lo più
traballanti ed irregolari. Non c’era nemmeno abbondanza di piatti, perciò
le vivande venivano dispensate in spase
e spasette, intorno alle quali si mangiava in più persone. Non si
consumava carne ovina o bovina, ma soltanto polli e conigli allevati nella
parte esterna del grottone, dai quali si ottenevano dei sughi che ti
inuzzolivano e ti facevano dimenticare le tristi vicende del momento.
C’era abbondanza di frutta di stagione: pere, pesche, fichi, prugne e
qualche grappolo di uva precoce. |
Non dimenticherò
mai gli atteggiamenti che mia nonna assumeva, quando tentava di ottenere
qualche notizia o fatto importante relativo alla situazione dei nostri
soldati e quindi del figlio Arcangelo. Quando rigirava la pasta nel grosso
calderone per gli sbandati ripeteva sempre “Chisà
s’Arcangl’ mij, nguarche bbona gent’ ngi raij na tozz’ r’ pan…
Chissà se ad Arcangelo mio qualche buona gente gli dà un tozzo di pane…
Io avevo l’impressione che a quelle parole, accompagnate da qualche
lacrima non trattenuta, a quei poveri soldati si fermasse il cibo in gola.
Certamente in quel momento anch’essi pensavano alle mogli, ai figli,
alle fidanzate, ai genitori. Li avrebbero rivisti presto? Avrebbero
continuato ad aver fortuna a non incontrare tedeschi e fascisti? Quelli che noi
ragazzi abbiamo incontrati e portati al rifugio di mio nonno erano tutti
calabresi e siciliani, tranne uno di Potenza e un campano: otto in tutto. |
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A queste notizie, arricchite anche da
particolari, mia nonna si calmava. Poi, da vera pia donna, entrava nella
stanza sinistra dell’abitamento e si metteva a pregare davanti ad un
crocefisso vecchio ed annerito dal fumo del camino, sulla cui canna
fumaria stava appeso ad un chiodo da |
Sentinelle Ogni
tre giorni, le donne e le ragazze tornavano in paese per panificare[2]
e per la pulizia personale. Io salivo con loro e con mia cugina Ida, che
aveva già sedici anni e poteva dare una mano per la panificazione. Tutti
gli altri, ragazzi e bambini, rimanevano in campagna sotto la tutela di
mio nonno. |
Nella sede del comando alloggiavano, tra graduati e soldati semplici, soltanto una decina di uomini. Il resto della truppa, non molto numerosa, risiedeva in altre zone della città, una delle quali, se non sbaglio, si trovava nella periferia Nord-Est di Rionero, dove c’è l’odierna via Fornaci. I tedeschi e i collaborazionisti, credendo che gli angloamericani avrebbero usato la Statale 93, avevano collocato due posti di osservazione muniti di mitragliatrice: uno sulla torre dell’Orologio della Costa, per controllare anche eventuali movimenti interni; l’altro sull’Aia di Coppa, poco distante dalla ferrovia sulla quale transitavano, a piedi, i soldati sbandati dell’esercito italiano da fare prigionieri. |
Anche se
l’aumento dei soldati tedeschi era solo temporaneo per motivi logistici,
tuttavia faceva crescere la tensione fra la popolazione, nella quale si
diffondeva, finalmente, la convinzione che le milizie ex alleate erano una
grossa iattura per tutti e ritenute anche esorbitanti per una cittadina
come la nostra. Avevano bisogno, infatti, di un vettovagliamento più
grande e quindi rapinavano di tutto: galline, conigli, ovini. |
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Era palesemente tremante e tutto agitato. Mio nonno gli chiese come
si sentisse. Gli giunse come risposta solo un balbettio. Alle premure di
mio nonno, il vecchio amico si calmò alquanto e ci disse: fra poco
capirete tutto. |
Poco dopo uscirono col
bottino e si diressero verso la sede del loro comando alle casette
asismiche. |
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La
fame e i saccheggi Tutta l’Italia, in quel periodo,
era in uno stato di assoluta prostrazione. La fame si leggeva sul volto di
tutti, soprattutto su quello dei grandi i quali, pur quando si riusciva a
racimolare un po’ di farina o pane col contrabbando, mangiavano meno del
necessario, per risparmiare qualcosa da offrire ai più piccoli. Il
consumo giornaliero delle derrate, previsto per le famiglie e ritirato
dalle drogherie e dai forni con tanto di tessera annonaria, era del tutto
insufficiente. |
Duce,
Duce, cumm’ n’hai fatt’ arridduce… |
Lu
iurn’ senza pane, e la ser’ senza luce… |
Chi soffriva di
più erano gli operai del bracciantato gli artigiani che non
possedevano fondi rustici. Non che i contadini stessero bene… avevano la
possibilità di arrangiarsi meglio e basta. Solo i proprietari di fondi
relativamente grandi, ma “rubando a sé stessi” disponevano del
necessario per vivere e barattare i loro beni per altre necessità. Anche
per i latifondisti e i cittadini più ricchi il problema esisteva,
perché la precarietà si avvertiva da tutti i ceti sociali. C’era
penuria di tutto e per tutti, ma la povera gente soffriva di più. |
Giunsero sul
luogo del saccheggio troppo tardi, perché farina, riso,
scatolame, prodotti caseari e quant’altro di buono era completamente
sparito. Tuttavia Donato e mio padre furono fortunati, perché dietro una
delle casette asismiche c’era un uomo più anziano di loro, il quale
stava seduto su due sacchi di riso che non poteva trasportare per il peso,
e tutto timoroso che altri glie lo sottraessero. Mio padre e Donato gli
fecero la proposta di dividere il riso, con l’impegno che l’avrebbero
accompagnato a casa a dorso del mulo. L’anziano,
considerata la situazione, accettò. Mentre i due caricavano il mulo, mio
padre era penetrato nella casetta ed era riuscito a riempire la sporta di
Donato di surrogato di caffè. Era l’unico prodotto rimasto, perché i
saccheggiatori avevano portato via le cose migliori. Prima che mio
padre e Donato giungessero alle casette, si era verificato l’intervento
delle forze dell’ordine cittadine e dei rappresentanti del Comune. I
loro intenti e i tentativi per realizzarli furono vani: la folla affamata
e violenta non si era fermata nemmeno di fronte ai colpi di pistola
sparati in aria a scopo intimidatorio. |
Alcuni tedeschi
di passaggio su un mezzo blindato, attirati dalla confusione e dagli
spari, intervennero per sedare il tumulto facendo uso delle armi: rimase
ferita una donna, Elisa Giordano, e fu colpito a morte un ragazzo
diciassettenne, Antonio Cardillicchio. I tedeschi poi dettero fuoco alla
casetta, nella quale morì arsa viva la donna precedentemente ferita, e
andarono via. |
Il primo gestiva il più grande e assortito esercizio di generi
alimentari; poiché abitava sul negozio, altre al danno subì la beffa di
esserne spettatore dal balcone di casa. Il secondo, invece, aveva un
negozio di scarpe “cittadine” e pellami vari. |
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Qualche giorno dopo, un vecchietto
delle vicine case asismiche, volendo far provvista di legna, pensò di
portarsi a casa qualche spezzone di traversa, ma restò straziato dallo
scoppio di una mina inesplosa o appositamente coperta, insieme ad una
donna fortunatamente rimasta solo ferita.
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La notte del bombardamento, mio padre non era solo in casa, come faceva
da quindici giorni per proteggere la nostra abitazione da eventuali
sciacallaggi. Con lui c’era anche mio fratello Antonio, che il giorno
prima era stato riportato in paese perché, colto da febbre malarica,
aveva bisogno di una visita a presso l’ambulatorio
antimalarico di don Federico Anastasia, a pochi metri da casa. Mio padre, quindi, fu costretto a portarsi mio fratello Tonino
in braccio con tutto un armamentario di coperte necessarie per combattere
il tremito della malaria, in una cantina situata sotto un grosso
caseggiato di fronte alla nostra abitazione. Per fortuna, le bombe
sganciate furono solo due e si ebbe solo una vittima. |
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La
strage Durante
una delle razzie al rione Chian’cantin si verificò un incidente. Una
donna gridò e Pasquale Sibilia, credendo che i razziatori la
molestassero, intervenne ferendo con un colpo di pistola la mano di un
paracadutista italiano collaborazionista, il sergente Garofalo. Il
capitano collaborazionista Edoardo Sala voleva far saltare in aria la casa
del Sibilia, per punizione; la rappresaglia [3]
che ne seguì, in realtà, fu più dura. Il Sibilia ed altri, rastrellati
per le strade con la scusa che si dovevano eseguire dei semplici lavori di
scavo, furono falcidiati da una mitragliatrice, mentre tenevano in mano
gli attrezzi da scavo. |
Di essi si salvò
solo mastro Stefano De Mattia, svenuto al rendersi conto di quanto
accadeva e capitato sotto i corpi degli altri. Chi dava il colpo di grazia
ai caduti non ritenne necessario farlo con
De Mattia, il quale aveva la testa tutta arrossata del sangue di
altri compagni ed il pallore della morte sul viso. |
Questi i nomi
dei trucidati: Emilio Buccino, i fratelli Pasquale e Pietro Di Lucchio,
Antonio di Pietro, Marco Grieco, Michele Grieco, Donato Lapadula, Giuseppe
Antonio Libutti, Donato Manfreda, Giovanni Manfreda, Pasquale Manfreda,
Antonio Santoro, Gerardo Santoro, Giuseppe Santoro, Pasquale Sibilia. |
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A noi non resta
che pregare per loro ed insegnare ai nostri figli a ricordarne il sangue
versato senza motivo, nelle speranza che aberrazioni simili non accadano
più. Per un dettagliato resoconto dell’eccidio, si consiglia la lettura
del libro Gli anni difficili,
Rionero 1943 di Paolino Di Giovanni, che ha trattato i fatti con
dovizia di prove testimoniali e documentazione ricavata dagli archivi
della Corte d’Appello di Potenza. Qui si svolse il processo intentato
contro Ubaldo Libutti, comandante dei vigili urbani di Rionero, ed i
collaborazionisti repubblichini, con l’imputazione di “aver avuto
parte attiva” sia nella triste vicenda del saccheggio dei viveri della
VII Armata italiana nelle casette asismiche di Sant’Antonio, sia
nell’istigare i nazifascisti a compiere l’eccidio del 24 settembre. Il
processo durò circa dieci anni, perché fosse chiuso definitivamente, ma
nessuno pagò per quelle vittime innocenti. |
Notte movimentata Due
sere prima dell’eccidio del
24 settembre sul nostro rifugio si era verificato un fatto straordinario.
Nella giornata ci eravamo spostati in contrada Pesco, per la raccolta del
granturco, le cui pannocchie avevamo trasportate alla Solagna della Noce
per la spannocchiatura. Mentre le donne, benché sera, continuavano in
questo lavoro approfittando di un bel chiarore di luna, mio nonno preferì
ritirarsi nel pagliaio a meditare sui suoi guai o, come dicevano le donne
sottovoce, a nascondersi sotto le coperte per non ascoltare quei discorsi
sulla guerra che lo tenevano continuamente in agitazione. |
Erano circa le
ore 23, quando Guerino e Meschino, i nostri due grossi cani da guardia che
tenevamo legati durante la notte, cominciarono prima ad emettere sordi
ringhii, che fecero zittire le donne e qualche grandicello come me rimasto
a vegliare con loro. Dopo alcuni attimi che sembrarono secoli, i due cani
cominciarono a latrare a più non posso e a correre verso il lato nord
dell’abitamento, inarcandosi sulle catene, quasi volessero spezzarle. |
“Zitti, zitti
- diceva nonna Pasqualina. - Qualcuno si sta avvicinando. Se si trattasse
di mio figlio Pasquale i cani non abbaierebbero, perché dal fiuto lo
riconoscono a distanza. Forse c’è qualche tedesco in giro oppure
qualcuno dei D’Angelo o dei Cappiello, che vengono a trovarci per
qualche serio motivo.” Nonna Pasqualina sapeva benissimo che a
quell’ora gli attendati dei rifugi vicini non andavano in giro, ma lo
aveva detto per calmare un po’ l’inquietudine generale. Perciò, in
cuor suo, si augurava che nulla di grave si verificasse e che il passante
fortuito, se di passante si trattava, cambiasse rotta e non si avvicinasse
all’abitamento. I cani, però, non smettevano di abbaiare e ringhiare. |
Di lì a poco
si sentì un fischio modulato, seguito a breve intervallo da una voce che
diceva: “Ehi! Di casa! Sim’
italiàn. Ci putìm’ avvicinà?” |
“Chi
siti?” chiese la nonna alzandosi sul mucchio delle pannocchie e
sforzandosi di vedere se, al chiarore lunare, si distinguesse qualche
figura umana. Poi, rivolgendosi verso il grottone, aggiunse: “Pasquà,
Nicòl, pigliate lu fucìl. C’è
gènt’ ca ci vol’ mul’stà.” |
Nonna
Pasqualina per la seconda volta aveva detto una menzogna; lei, che non
sapeva nemmeno cosa fosse! Di uomini c’era soltanto il nonno, in
compagnia di pochi nipoti maschi. Egli era uscito dal pagliaio e,
nonostante la drammaticità del momento e un po’ di tremarella, sembrava
mostrare una calma olimpica, mentre serrava tra i denti la cannuccia della
sua inseparabile pipa di argilla rossa. Si avvicinò ai cani per calmarli
e, se ce ne fosse stato bisogno, di allentarli contro gli sconosciuti. |
“Possiamo
venire?” si sentì dire da una persona, la cui voce proveniva dal lato
nord del rifugio. Ci fu un lungo attimo di silenzio, poi nonna Pasqualina,
nonostante i brontolii del nonno, rispose di sì. Alla luce della luna si
stagliarono prima due esili figure umane, poi, pian piano, una lunga fila
indiana. Man mano che si avvicinavano al mucchio delle pannocchie,
parlottavano fra loro e dai loro atti si poteva capire che erano contenti.
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Vedersi un così
folto gruppo di uomini intorno per le donne fu un brutto colpo. Qualcuna
già emetteva qualche esclamazione che significava terrore. Quello che
pareva il capo si diresse verso mio nonno e disse:
“Signore, se avete dei dubbi sulle nostre intenzioni, noi ce ne andiamo
subito e togliamo ogni disturbo. Per favore, però, diteci almeno quale
dovrà essere la nostra direzione di marcia per Potenza.” Mio nonno
stava per rispondere, ma quello continuò. “Siamo soldati italiani. Non
siamo briganti o tedeschi. Vi preghiamo solo di indicarci la
direzione verso Potenza, senza incontrare tedeschi.” Il nonno aveva
capito subito tutto, ma rispose solo quando il soldato aveva finito di
esprimersi, per raccogliere anche lui parole più rassicuranti per tutti. |
I dodici cominciarono a prendere posto sotto il pergolato. Qualcuno già si stendeva per addormentarsi subito e scrollarsi di dosso la terribile stanchezza. Il nonno pregò le nostre donne di portare fuori dal grottone delle balle di paglia, alcuni pagliericci e panni, perché i soldati potessero dormire almeno con le spalle coperte. Con quelli che non si erano addormentati si cominciò a fraternizzare. La nonna, dai loro volti stanchi ed emaciati, capì subito che erano affamati.Mentre i soldati si sistemavano alla meglio, quello che sembrava il capo ed era rimasto a parlare con noi, si schermì dalle offerte dei nonni di voler cucinare qualcosa per loro. “E’ tardi e siamo in molti - diceva - vi ringraziamo, ma non possiamo accettare. Siamo in molti, e coi tempi che corrono... Grazie, buona gente, sappiamo arrangiarci; la stagione è buona e la frutta non manca.” Si capiva, però, che nonostante tentasse di negarlo, avrebbe tanto desiderato qualcosa di caldo per sé e i suoi compagni. Ormai alcuni già russavano; l’ora era tarda, e si decise di andare tutti a riposare. |
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Il sole si era
alzato, ma i soldati continuavano a dormire, nonostante il vociare di
alcuni bambini che arrivavano in punta di piedi a curiosare vicino ai
nuovi arrivati che, nella loro innocenza, consideravano degli intrusi.
Dalla ciminiera centrale del grottone, intanto, continuava ad uscire fumo,
come nei mesi di giugno e luglio, allorché scioglievamo pezzi di azzurro
solfato di rame in un grande calderone di rame rosso, per mescolarlo alla
calce bianca ed irrorare i vigneti. Stavolta, però il calderone di rame
rosso era staianato... stagnato, quello che serviva a bollire pura acqua di fonte. |
Appena finito
il pasto mia nonna, come aveva fatto con altri sbandati, prima con
disinvoltura e poi con malcelata commozione cominciò a fare domande, chiedendo informazioni sulla situazione
dei nostri
soldati. Da quando ci eravamo rifugiati in campagna, in casa Crovace in
via Mazzini nessuno più ascoltava la radio, tantomeno Radio Londra. Mia
nonna continuava a cercare notizie sulla sorte del figlio Arcangelo che
prestava servizio militare in Friuli a Gemona, Udine, Piedicollo... |
I soldati ci dissero che intendevano continuare il viaggio di ritorno ai loro paesi su strade di campagna, ma alla vista del paesaggio di fronte, formato da un susseguirsi di serre e profonde vallate, vollero sapere se conoscevamo qualche strada che abbreviasse il loro cammino. Rispondemmo che c’era una strada che, dove si e dove no, costeggiava la ferrovia; ma non sapevamo se fosse sorvegliata. |
La ferrovia si stagliava ben visibile dal nostro fondo perché, dove oggi
c’è il cavalcavia della superstrada con l’uscita per Rionero, essa
corre su un terrapieno di sollevamento del suo livello. Mio nonno stava
informando i soldati su ciò che egli conosceva, ma la risposta più
chiara alle loro domande venne dal crepitio di una
mitragliatrice proveniente proprio dalla direzione della strada ferrata. |
Era successo
che degli sbandati, arrivati alla stazione di Rionero, erano saliti sopra
un carrello abbandonato avviandosi
verso Potenza. Erano passati davanti al nido di mitragliatrici disposta
sull’Aia di Coppa senza che venisse aperto il fuoco, ma solo per entrare nel campo di tiro di un’altra postazione, che
quel giorno era sistemata su serra San Francesco. |
La
liberazione Noi
dei rifugi di Solagna della Noce, il 27 settembre, tre giorni dopo
l’eccidio, fummo attratti da una sparatoria fitta, non continua,
intermittente. A est di fronte a noi, tra Ginestra e Ripacandida, benché
col sole negli occhi, distinguevamo due linee di fumo a qualche centinaio
di distanza fra loro. Era circa mezzogiorno. Pur avendo capito che si
trattava di uno scontro fra due parti avverse, non ne sapevamo il perché
e quindi facevamo tante ipotesi in proposito. Lo scontro durò poco più
di una sola ora. Poi tutto tacque. Verso le 13 e 30 stavamo pranzando
all’aperto, allorché pervennero i fratelli D’Angelo, per consultarsi
con noi. Si arrivò subito a comprendere la realtà: avevamo assistito ad
uno scontro tra retroguardia tedesca e avanguardia alleata. Ecco perché,
da circa una settimana, a Rionero c’era un reparto di guastatori
tedeschi, quelli che entrano in azione all’ultimo momento e scappano via
ad occupare altre posizioni di coda; qualche giorno prima avevano fatto
crollare il ponte ferroviario. |
Quanto
ipotizzato sullo scontro armato veniva subito confermato, mentre si
discuteva ancora. Sul piazzale del rifugio comparvero improvvisamente due
soldati tedeschi, con il fiato in gola e madidi di sudore. Uno era
claudicante per una ferita al tallone che arrossava di sangue il resto
della scarpa, il cui tacco era stato portato via da un proiettile. Per
tenersi in piedi, il ferito appoggiò ambedue le mani al tronco di un
mandorlo, che chiamiamo ancora oggi mandorlo del tedesco ed è quasi
secco. Con voce tremante diceva “Aqua, Aqua! Amerikanen! Amerikanen!” |
Il tedesco
ferito lasciò l’appoggio sull’albero e imbracciò il fucile, temendo
il peggio. Mio padre e i fratelli D’Angelo misero contemporaneamente gli
indici delle loro mani alla tempia, toccandola ripetutamente, come per
dire “è pazzo”. Il tedesco si calmò e chiese ancora acqua. Gli fu
portato un cìc(i)no – orciuolo – di acqua fresca, che bevve avidamente.
Poi, mentre continuava a dire “Amerikanen, Amerikanen” con la mano
distesa verso il luogo dello scontro e con gli occhi quasi fuori dalle
orbite, riprese il cammino, o meglio la fuga, verso Rionero, insieme
all’altro che ogni tanto lo sorreggeva. Lascio al lettore immaginare la
sfuriata di mio nonno, dopo che i due tedeschi erano lontani. |
La mattina
dopo, 28 settembre, prima che arrivassimo alle macerie del ponte
ferroviario, sulla provinciale n. 8 per Ripacandida, un gruppetto di
militari con berretti a larghe tese come i cappelli dei cow boy e con
divise sgargianti ci fermò. A gesti ci fecero capire di pazientare un
po’ e ci offrirono pezzi di cioccolato e bottiglie
di coca cola. Per entrare in
Rionero con speditezza, prima che esaminassero con le loro apparecchiature
la sicurezza delle strade, gli alleati avevano provvisoriamente dirottato i
loro automezzi per la strada che viene dal rione San Francesco, davanti alla
casa dei Curto.
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A Rionero quel
giorno fu gran festa, anche perché già da qualche giorno erano tornati dei
fuoriusciti che erano stati in clandestinità. Sembrava che le lacrime,
versate nei giorni precedenti per le vittime dei nazifascismi, fossero
terminate. La gioia più grande era quella delle mamme, le quali potevano
finalmente lasciare i figli giocare liberamente per le strade del vicinato.
La cupa atmosfera da incubo era finita per tutti.
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Note
[1] Dal 1946 in poi, erano già passati tre anni, ho studiato a Potenza. C’erano ancora i segni dello sconquasso provocato da quel bombardamento e da altri, che causarono anche vittime. [2] La mia famiglia disponeva di grano sufficiente per sé, come tante altre del ceto medio agricolo. Nel mio vicinato la famiglia Granito era la più numerosa: ben dieci figli. Il padre, signor Umberto, era mugnaio e gestiva un mulino in Via Roma in società con la famiglia Frascolla. Papà Granito ci faceva trovare molito il grano da noi portato, che era stato nascosto in casa in intercapedini create con la creazione di muri davanti a quelli preesistenti. Così, i mezza giornata di tempo, si impastava, si infornava e si portava il pane nel rifugio di Solagna della Noce. [3] Non si trattava di rappresaglia in senso tecnico. Gli ordini di Hitler erano di uccidere 10 italiani per ogni tedesco morto: a Rionero il fascista non solo era italiano, ma era stato ferito solo leggermente. Si rammenti che il processo per le Fosse Ardeatine (33 tedeschi uccisi, rappresaglia su 335 italiani) fu imperniato sui 5 fucilati in più rispetto ai 330 per cui gli imputati potevano invocare, a loro giustificazione, l’ordine di Hitler.
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